Proletari, operai o ... moltitudine?

Publié le par s.b.

Va di moda criticare l’uso di termini, quali “proletario”, “borghese”, lotta di classe, ecc. in quanto sarebbero – secondo i commentatori – desueti e, soprattutto, inadeguati.

Va premesso che ogni termine nel momento stesso in cui cerca di definire una realtà, in questo caso sociale e in continuo movimento, pecca per difetto e per eccesso. Per difetto, in quanto la realtà è sempre più ricca e complessa di quanto si possa immaginare, e quindi definire (e non c’è bisogno di scomodare Einstein, che lo ha ripetuto più volte, o Spinoza). Per eccesso, in quanto ogni definizione è al contempo una generalizzazione, mentre la realtà “quotidiana” ci dà esempi concreti, i più vari, ma al contempo più circoscritti, delimitati e soprattutto spuri. Pertanto, non solo i termini “incriminati”, ma qualunque termine soffre di queste “patologie”, cioè invecchia non appena coniato (perché la realtà cambia subito dopo), e risulta più o meno inadeguato ogni qual volta lo si applica a realtà storicamente determinate.

Ciò premesso, e concentrandoci per ora sul primo termine “incriminato”, proletario significa letteralmente “proprietario dei (soli) propri figli”. Senza andare troppo a ritroso nei tempi (anche se potrebbe risultarne interessante la ricerca storico-etimologica), mi pare verosimile che il termine sia stato coniato soprattutto avendo in mente il contadino povero, cioè privo di strumenti di lavoro e della terra, il quale più figli faceva (fare a sua moglie) e più aiutanti nel lavoro dei campi (degli altri) avrebbe avuto. Il termine, poi, è andato estendendosi agli operai delle manifatture e delle fabbriche, i quali possedevano (e vendevano) solo la propria capacità lavorativa (forza-lavoro, secondo Marx). E’, infine, divenuto famoso e universalmente conosciuto (e riconosciuto) con l’uscita, nel 1848, del “Manifesto del Partito comunista” di Marx ed Engels, che si concludeva coll’ arci-noto motto “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”.

Questo termine, da allora è stato usato milioni, forse miliardi di volte, in tutte le occasioni, dalla Comune di Parigi del 1871 alla Rivoluzione russa dell’ottobre 1917, e in tutti i tentativi rivoluzionari che le hanno seguite. Sinceramente, non si vede per quale motivo oggi come oggi non lo si debba più usare, anche e soprattutto perché non ha sostituti migliori (e con tale lunga e gloriosa storia alle spalle). Forse perché non è “in”? Perché nei salotti bene e tra gli intellettuali non va più di moda? Non ci pare motivo degno, né tanto meno sufficiente. Quando, e tra non molto, anche in Italia (perché in America Latina, per es. è molto attuale) tornerà in auge, lo farà in modo così travolgente che lascerà senza fiato i suoi detrattori.

Un problema più serio concerne l’attualità del termine proletario come descrittivo di una realtà sociale relativa all’operaio occidentale in genere, dei nostri tempi. Nel senso se sia adatto o meno a rappresentare una realtà complessa, che varia dall’operaio disoccupato dei bassi napoletani all’operaio “aristocratico” milanese, passando per una miriade di figure sociali intermedie. Ciò che balza all’evidenza è che non vi è identità tra i due termini, proletario ed operaio (ma abbiamo visto che non lo è stato neppure storicamente). Uno può essere proletario senza essere operaio (il disoccupato, in quanto tale, non “opera”; il pensionato ex-operaio non opera più; ecc.); mentre l’operaio proprietario di uno o più appartamenti, e che per giunta “gioca” in borsa, chiamarlo proletario fa fischiare le orecchie, anche se resta comunque operaio se ogni mattina deve alzarsi e andare a lavorare (cioè se il salario resta comunque la sua base reddituale unica o quantomeno principale).

Gira e rigira, resta sempre valida l’affermazione marxista classica secondo la quale il “proletario non ha niente da perdere se non le sue catene”. A livello mondiale (Africa, Asia, America Latina), non ci piove. Nell’occidente capitalistico, nonostante tutte le delocalizzazioni, la terziarizzazione e l’imborghesimento operaio, il proletariato resta tale, anche se può – di volta in volta – avere la pelle nera o scura o gialla, oppure parlare in lingua turca (in Germania), in arabo (in Francia), in rumeno o albanese (Italia), oppure in dialetto napoletano, calabrese o siciliano; e, infine, aver goduto per qualche anno di una condizione di pseudo-possidente precario. Dopo tre anni di crisi ininterrotta, se non si son venduto tutto, poco ci manca.

Per quanto riguarda i tentativi di sostituire il termine proletariato, che dà effettivamente fastidio a tanti, e soprattutto a chi ne fa parte, con altri più “in”, si può citare quello del prof. Negri il quale cerca da qualche anno di sostituirlo con il termine “moltitudine”. Non è questo il luogo per demistificare questa operazione di parassitismo sociale, legata alla richiesta di un “reddito di cittadinanza”. Qui è sufficiente osservare che col termine moltitudine sparisce ogni distinzione di classe: i possessori, diretti o indiretti, dei mezzi di produzione (i borghesi) e i possessori della propria forza-lavoro (i proletari), vanno tutti a braccetto in una marcia trionfale contro ... l’”Impero” che, per chi non lo sapesse, è un organismo sovra-statale e sovra-nazionale bio-politico (?!). Con tutto il rispetto per il prof. noi, da buoni ignoranti, restiamo fedeli al nostro vecchio e demodé termine di “proletariato” (o, se preferite, di “canaglia pezzente”, come recitava un vecchio canto operaio), e alla “bio-politica” preferiamo la vecchia ma non arrugginita lotta di classe.

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